Giuliano Amato è stato nominato da Valerio De Luca, componente dell’Alto Consiglio Direttivo

Giuliano Amato è stato nominato da Valerio De Luca, componente dell’Alto Consiglio Direttivo


Comunicato stampa

In data 18 Febbraio 2023 Giuliano Amato, Presidente emerito della Corte Costituzionale, è
stato nominato componente dell’Alto Consiglio direttivo da Valerio De Luca, Direttore e
fondatore della SPES Carlo Azeglio Ciampi, su proposta di Domenico Marchetta, Presidente
onorario di AISES, sentiti Enrico Giovannini, Presidente della SPES Carlo Azeglio Ciampi
e Luigi Fiorentino, Direttore dei programmi.
Tale nomina, che giunge a seguito della Cerimonia inaugurale della Scuola tenutasi lo scorso
14 febbraio presso il Senato della Repubblica e aperta da una lectio magistralis di Giuliano
Amato, aggiunge ulteriore valore alle attività di alta formazione e lustro all’Alto Consiglio
direttivo, già composto da:
Patrizio Bianchi (cattedra UNESCO) Lorenzo Bini Smaghi (Presidente di Société Générale);
Flavio Cattaneo (Vice presidente di Italo – Nuovo Trasporto Viaggiatori); Pier Andrea
Chevallard (AD di Tinexta); Vito Cozzoli (Presidente e AD di Sport e Salute S.p.A.); Michele
Crisostomo (Presidente Enel); Mirja Cartia d’Asero (AD Gruppo Sole 24 ore); Claudio De
Vincenti (Presidente Aeroporti di Roma); Antonio De Palmas (Vice President Global Market
Development Public Sector Microsoft); Matteo Del Fante (Ad e Direttore Generale Poste
Italiane); Claudio Descalzi (Ad di Eni); Alain Elkann (scrittore e giornalista); Stefano Antonio
Donnarumma (Ad di Terna); Luigi Ferraris (AD di Ferrovie dello Stato Italiane); Giovanni
Floris (Giornalista e scrittore); Franco Gallo (Presidente della Enciclopedia italiana Treccani);
Paolo Gallo (AD di Italgas);Massimo Giannini (Direttore de ‘La Stampa’); Gian Maria GrossPietro (Presidente di Intesa Sanpaolo); Maximo Ibarra (AD di Engineering); Radek Jelinek
(Presidente e AD di Mercedes Benz-Italia); Massimo Lapucci (Segretario Generale, Fondazione
Cassa Risparmio Torino); Nicola Maccanico (Ad di Cinecittà Spa); Emma Marcegaglia (Vice
Chairman e AD Marcegaglia S.p.a); Mariangela Marseglia (Country Manager Amazon Italia
e Spagna); Bernardo Mattarella (AD di Invitalia); Andrea Munari (Presidente di BNL Gruppo
BNP Paribas); Mario Nava (Direttore Generale DG Reform della Commissione europea);
Pietro Carlo Padoan (Presidente di Unicredit); Simona Paravani Mellinghoff (Managing
Director Blackrock); Claudia Parzani (Presidente di Borsa Italiana); Corrado Passera
(Fondatore e AD di Illimity); Marco Patuano (Presidente di A2A); Alessandro Profumo (AD di
Leonardo); Francesco Profumo (Presidente Compagnia di San Paolo); Secondina Ravera
(Presidente del Pio Albergo Trivulzio e di Destination Italia); Salvatore Rossi (Presidente di
Telecom Italia S.p.a); Marina Salomon (Presidente di Alchimia e Connexia); Paolo Savona
(Presidente di Consob); Maurizio Sella (Presidente di Banca Sella); Eugenio Sidoli (AD di Max
Mara); Massimo Tononi (Presidente Banco BPM); Giulio Tremonti (Presidente di Aspen);
Giovanni Tria (Presidente Fondazione Enea Tech e Biomedical); Marco Tronchetti Provera
(Vice Presidente esecutivo e AD Pirelli & C. S.p.a), Fabio Vaccarono (Presidente e AD
Multiversity Group)

AUTONOMIA STRATEGICA E SVILUPPO SOSTENIBILE

Lectio Magistralis di Giuliano Amato, Cerimonia inaugurale SPES Carlo Azeglio Ciampi.
Martedì 14 Febbraio, Sala Capitolare, Senato della Repubblica

L’Europa è sempre stata al centro nella visione del Presidente Ciampi. Come egli
affermava, già dai tempi di Mazzini, la valorizzazione del Paese doveva essere
fondamentale nell’ambito europeo. La stessa Italia per Ciampi, la crescita della
Nazione, doveva andare di pari passo con la crescita dell’Europa, l’una non poteva
escludere l’altra.
Per questo il concetto di “autonomia strategica” è da considerarsi ad oggi
problematico, un concetto al quale va posta un’accurata riflessione. Tale nozione
ebbe il suo primo riferimento già nel 2013, quando apparve in un documento europeo
a seguito di una riunione del Consiglio Affari Generali dei Ministri degli Esteri, ove
si pose il problema dell’autonomia strategica nel quadro dell’Unione europea.
Ed è proprio da qui, che a mio parere nascono le due più grandi differenze, che
pongono le basi per una prospettiva positiva, da una parte l’esercito europeo e
dall’altra la NATO. Furono, infatti, per primi gli Stati Uniti a porre le basi di questo
concetto, con le parole di Obama nel lontano 2013, che affidava ad ogni Stato le sue
responsabilità per difendere la libertà. Lo sviluppo di quella dottrina è stata più una
devianza dalla stessa che un avvicinamento.
In una visione in cui, pur permanendo l’Alleanza atlantica, ciascuno Paese membro
potesse intervenire d’accordo con la NATO avrebbe avuto senso, come sarebbe
accaduto nel caso del Kosovo.
L’ “autonomia strategica” in materia di difesa, nonostante la sua problematicità,
sarebbe stata coerente realizzarla, sebbene le relazioni tra industria militare e governi
siano sempre state molto complicate.
A partire dagli anni ’90 con il trattato di Lisbona, tale concetto è passato dalla difesa
all’economia per cui, unendosi gli Stati, avrebbero potuto perseguire l’obiettivo
nazionale di spendere meno e produrre in modo più efficiente.
Questa strategia, però, non è stata mai applicata, perché nessun governo voleva
perdere la sua potenza nazionale. E fu così che nel 2016 apparirono i primi
documenti di strategia globale, partendo da un referendum della Brexit del Regno
Unito dove si applicarono la nozione di autonomia strategica insieme alle autorità
militari ed economiche.


Il documento della Commissione, che appare dopo il referendum che approva la
Brexit nel Regno Unito, applica la nozione di autonomia strategica all’insieme delle
attività militari ed economiche. In particolare, nell’anno successivo, il 2017, si arriva
all’esplicita menzione di aree economiche di produzioni per le quali è importante
l’autonomia strategica.
È da notare come, proprio in quell’anno, Macron sollevi entusiasmi tra gli europeisti
di tutta l’Unione quando parla di sovranità europea. L’entusiasmo è legato al fatto
che la Francia, che più di tutti i Paesi aveva difeso la sovranità nazionale dai tempi
di De Gaulle in poi, per la prima volta attraverso il suo Presidente, trasferiva
l’aspettativa di sovranità dal livello nazionale al livello europeo. Nessuno aveva mai
concepito l’Unione europea come un soggetto destinato ad essere titolare di una
sovranità, da sempre ritenuta una prerogativa degli Stati nazionali.
Sul piano politico, però, fu molto importante che il Presidente della Repubblica
francese esprimesse il concetto di sovranità europea: non porre un limite derivante
dalla propria sovranità agli sviluppi e alle grandi trasformazioni che possono
presentarsi in Europa. La nozione di autonomia strategica, infatti, passa dal settore
militare, al settore delle tecnologie, a quello delle produzioni e dell’energia sino a
quello agricolo-alimentare.
L’accelerazione, che oggi stiamo vivendo, si è compiuta un colpo dopo l’altro, con
la pandemia e la guerra. Infatti, è necessario legare l’idea di autonomia strategica alle
vicende del mondo globale e alle vicende di un’economia che, nel corso degli anni
si è globalizzata, creando quelle che si chiamano le supply chains, da cui
scaturiscono poi i prodotti finale su scala planetaria.
Ciò significa, ad esempio, che un prodotto, montato in un determinato Paese, avesse
all’interno delle componenti le cui nazioni d’origine erano molteplici, con numeri
che arrivavano a toccare la soglia di 30 o 40 Paesi diversi. Quindi, l’economia
globale era diventata una realtà.
Consentiva, infatti, di produrre un bene a condizioni migliori e meno costose,
moltiplicando addirittura il numero di Paesi dai quali la componentistica poteva
arrivare. Questo naturalmente ha portato a grandi dislivelli tra i suddetti Paesi,
poiché l’evidenza suggeriva che produrre un certo bene o servizio, ad esempio in
Thailandia, e trasportarlo negli Stati Uniti, portava a dei costi aggregati minori di
quelli sostenuti per produrre il medesimo bene interamente negli Stati Uniti.

Il costo del lavoro è, infatti, diverso nelle varie parti del mondo. Il mercato era, però,
globale in termini di commercio ma molto frammentato nelle sue componenti e
consentiva uno sviluppo delle produzioni e dei traffici che non incontrava confini.
I consumatori hanno quindi finito con l’usufruire di prodotti senza avere la necessità
di controllare l’origine, ma anzi beneficiando di un costo minore. È stato questo il
fattore che è venuto a mancare e che ha fortemente sconvolto le nostre economie tra
pandemia e guerra.
Questi eventi altamente critici, essendosi sommati, hanno portato a dei blocchi nel
commercio dove prima non c’erano e, quindi, ad uno stallo nel sistema degli
approvvigionamenti dai Paesi produttori, per una serie di motivi, tra cui, ad esempio,
un aumento del rischio di trasporto del virus tramite queste merci. Si veda il caso
delle mascherine, non prodotte localmente, che dovevano essere necessariamente
importate da Paesi con cui era momentaneamente rischioso entrare in commercio.
Questo fenomeno si è, dunque, ampliato a causa della pandemia e ha portato all’idea
di dover raggiungere una certa autonomia in termini di produzione di beni strategici,
poiché i commerci non avvenivano più a livello globale. Si inizia quindi a parlare di
de-globalizzazione.
Ne consegue che l’autonomia strategica, che aveva un significato limitato quando
inizialmente si era trasferita dalla difesa all’economia, subisce una mutazione
radicale.
In questa nuova situazione globale, in qualunque momento, beni prodotti da paesi
terzi e necessari per le nostre economie potrebbero non essere più disponibili per
l’acquisto. Si è quindi cominciato a ipotizzare che, in questo mutato contesto, per
essere autonomi bisognasse fare qualcosa in più, cioè mettere dei fondi a
disposizione e a favore di coloro che stavano producendo questi beni strategici,
seppur in piccole quantità, o che avrebbero potuto iniziare la produzione ex novo.
A questo punto la problematica può dividersi in due questioni. La prima è inerente
al “chi è autonomo?”.
Una figura come Ciampi non avrebbe avuto dubbi sul fatto che l’autonomia
strategica sarebbe dovuta essere di livello europea e non di ogni singolo paese
poiché, trovandoci davanti a una frammentazione del commercio mondiale, reagire
dividendo l’Europa non è la soluzione ottimale, essendo peraltro l’idea stessa di
autonomia strategica nata ed intesa come europea.

La seconda questione riguarda la domanda “da chi si è autonomi?”.
Se si è dominati dalla paura che una pandemia globale possa bloccare i rapporti con
una parte del mondo, non vi è distinzione tra i paesi ed è quindi necessario essere
autonomi tanto dalla Cina, quanto dall’Africa o dagli Stati Uniti.
Ci si trova così nella necessità, per fronteggiare questa evenienza, di produrre tutto
internamente, anche se questa può risultare una possibilità estrema.
A questo punto si pone un altro problema, peraltro recentemente sollevato in un
editoriale dell’Economist: qual’ è la ragione di utilizzare dei fondi europei per
produrre internamente dei beni che Paesi, come gli Stati Uniti, produrranno con i
loro fondi? Cosa potrebbe impedire agli europei di acquistare questi beni altrove una
volta pronti? Qual’ è il motivo dietro questa spesa all’apparenza inutile?
Sono senza dubbio domande imprescindibili che in futuro dovranno trovare una
risposta. Certo è che il concetto di autonomia strategica, legato alla sostenibilità,
prefigura dei modi virtuosi che, per essere implementati, dovranno corrispondere ad
una attenta valutazione sulle condizioni concrete di realizzazione.
Possiamo ora analizzare tre questioni diverse. La prima riguarda il fatto che
l’autonomia strategica dovrà intendersi dell’Unione europea e della sua economia.
Ciò significa che tale autonomia non potrà attuarsi attraverso modalità con cui
ciascun Paese tratta le proprie industrie. Questa non sarebbe una strategia comune ai
Paesi membri ma si conformerebbe ai tradizionali aiuti di stato, ciascuno ai suoi.
La seconda questione è che una tale autonomia strategica presuppone un determinato
assetto dei rapporti esterni. Sebbene la tendenza al protezionismo nazionale si sia
diffusa negli Stati Uniti, soprattutto sotto la presidenza Trump, e che questa abbia
portato a delle intemperanze, il libero commercio tra Stati Uniti ed Unione europea
può essere ritenuto la premessa maggiore e non quella marginale. In questo quadro,
la domanda dell’Economist analizzata sopra ha denso significato.
La terza questione riguarda la localizzazione della strategia stessa. Infatti, ai fini
dello sviluppo sostenibile è impensabile che l’Unione europea non leghi sé stessa ai
Paesi mediterranei ed alcuni di quelli africani, poiché altrimenti l’autonomia
strategica perderebbe la sua aderenza.
Se vi è infatti la necessità che questa autonomia sia sostenibile, c’è bisogno di
un’integrazione con questa area, sia in termini di materie prime, sia per quanto
attiene al mercato dei beni e del lavoro.

Si intende, quindi, un’autonomia come parte di un più ampio progetto, che includa
le zone per noi di interesse strategico, ovverosia il Mediterraneo, il Medio Oriente e
buona parte dell’Africa.
Vi è una chiosa che è importante da fare, poiché questa sostenibilità va intesa in
senso economico. Ciò che serve ai fini di uno sviluppo sostenibile è la possibilità di
avvalersi di materie prime e di beni strumentali che sono rari e particolarmente
costosi per noi, quali ad esempio i minerali e i beni utili per le produzioni di oggetti
elettronici, come microchip, batterie e cellulari.
Essendo queste “terre rare”, se ciascuno si presenta non in grandi blocchi economici
ma come singolo paese che avanza la propria richiesta, allora la diretta conseguenza,
per la legge di mercato, è che i prezzi raggiungono livelli insostenibili. Ne segue che
il costo che viene a gravare sull’economia, dovuto alla frammentazione delle
autonomie strategiche, diventa difficilmente sostenibile a prezzi che siano
compatibili con un uso dei prodotti su larga scala.
Quello che sta oggi accadendo non procede nella corretta direzione. Ciò non mette
in discussione l’autonomia strategica ma la nostra capacità di realizzarla, così come
accadde all’origine in campo militare, per la quale ci rivelammo incapaci persino di
mettere insieme le nostre industrie di armamenti.
È di tutta evidenza notare come ci siano due snodi strategici ai fini dell’impianto che
l’autonomia strategica dovrebbe avere. Uno è il rapporto con gli Stati Uniti.
E’ iniziata una legislatura con un Congresso poco illuminato, che avrebbe potuto
emanare proposte migliori dell’Inflation Reduction Act. Questa è una legge di sussidi
all’insegna del Buy American, ovvero chi produce negli Stati Uniti ha più benefici,
creando una situazione tale per cui anche industrie europee insediatesi in uno Stato,
ad esempio in Alabama, possono usufruirne.
Si tratta di una strategia miope che non tiene conto di un’ottica comune all’Unione
europea. Personalmente, mi ritengo un nostalgico del TTIP, il trattato transatlantico
sul commercio, risalente al periodo che va dal 2010 al 2016 e ufficialmente terminato
sotto la presidenza Trump. In esso si era immaginata un’area di libero commercio
totale, in pratica un allargamento del nostro mercato unico agli Stati Uniti.
I benefici per le rispettive economie sarebbero stati elevati. Vennero comunque fuori
una serie di obiezioni, perché gli standard per i prodotti alimentari degli Stati Uniti
avrebbero potuto essere definiti in termini più blandi rispetto a quelli utilizzati
nell’Unione europea. Questo, tra le altre cose, è un tema ricorrente dopo la Brexit.

Mi permetto di avanzare un primo punto, in funzione di una futura autonomia
strategica comune, essendo già l’Unione Europea e Stati Uniti in posizioni simili,
tranne che per l’area dell’Hi-Tech dove possediamo la metà delle imprese rispetto
agli americani.
Si potrebbe creare un TTIP di tipo selettivo con produzioni che mirano ai fini di una
autonomia strategica comune. È un discorso ancora aperto ed è necessario che
qualcuno lo affronti e non in un modo leggero.
È noto che nell’Unione Europea le relazioni commerciali esterne sono oggetto di
una delle poche competenze esclusive dell’Unione stessa. Per rappresentare una
visione unitaria dell’Occidente agli occhi del mondo, bisognerà allora aprire la strada
ad un disegno più generale dove i vertici di Bruxelles si presentino a Washington
con una voce unica, e non con le delegazioni dei singoli Paesi.
Questa rinnovata partnership si potrebbe allargare a Paesi che dell’Occidente non
fanno parte, ma che ad esso sono legati da altre ragioni di convenienza, come ad
esempio al Giappone.
Un secondo punto è che per dirsi “europea” l’autonomia strategica deve innanzitutto
essere europea la politica industriale che la attua ed europei i fondi che finanziano a
loro volta la politica industriale.
C’è chi obietta come sia difficile realizzare una politica industriale europea in settori
come l’automobile o la chimica, perché è difficile “europeizzare” queste filiere che
sono fortemente radicate a livello nazionale.
Ciò non impedisce, però, che si possa fare una politica industriale europea in ambiti
selettivi, identificando alcuni settori strategici dove c’è maggiore carenza, come
soprattutto l’High Tech, dominato dalle grandi compagnie americane. Bisognerà
individuare anche quelle tecnologie in cui gli europei, in alcuni casi limitati, siano
addirittura più avanti degli americani. Ad esempio, quando si è trattato di fare la
concorrenza alla Boeing, è stata realizzata con l’Airbus un’industria europea, che
non aveva nulla di nazionale.
Si potrebbe tentare lo stesso approccio nel settore dell’innovazione, finanziandolo
con fondi europei, anche se le conclusioni dell’ultimo Consiglio europeo dicono che
per fare un fondo comune europeo occorre tempo e nel frattempo si può far ricorso
agli aiuti di Stato.

Era prevedibile l’opposizione dei paesi debitori, in quanto siamo tutti consapevoli
del potenziale della Germania e della Francia rispetto ad altri Paesi, come l’Italia.
Non so quanto l’uso flessibile dei fondi del PNRR in Italia ed altrove, così come per
il Next Generation EU e gli aiuti di Stato, sia propedeutico alla creazione di un vero
fondo comune europeo e, quindi, all’impostazione di una politica industriale, dove
ciascuno continua ad usare la propria discrezionalità a livello nazionale.
Giunti a questo punto ripercorro il mio ragionamento che poggia su tre gambe.
La prima: partnership transatlantica selettiva. La seconda: politica industriale
comune sul da farsi e non su ciò che già esiste. La terza: Mediterraneo e Africa.
Queste direttrici, prive di contenuti da implementare e senza una matura visione
comune delle risorse da impiegare, evidentemente tendono ad affievolirsi.
Esiste un problema con il Next Generation EU, per cui l’Unione si è indebitata per
oltre 700 miliardi per intervenire sulle conseguenze della pandemia, che poggia su
un fondamento legale abbastanza debole, e cioè sull’articolo 311 del Trattato che
prevede l’assistenza agli Stati che si trovano ad affrontare situazioni eccezionali al
di fuori del loro controllo.
I giuristi hanno prodotto studi che documentano come circostanze eccezionali,
ripetendosi nel tempo, possono “normalizzare” le situazioni e, dunque, rendono
inadeguato il suddetto un articolo del Trattato, rendendo necessaria una sua modifica
su come si decide con riguardo alle risorse proprie. Queste che sembrano
technicalities hanno, in realtà, un forte rilievo politico.
Per concludere, occorrerebbe che qualcuno in Europa si mettesse alla testa di un
processo fortemente integrativo, motivato da necessità reali e non da astratta
ideologia europeista. Difficilmente si potrà realizzare in seno al Consiglio europeo,
dove i 27 Stati percorrono ciascuno storie diverse.
Bisognerà allora fare appello ad una storia comune che è la storia di un’umanità che
sta andando verso la fine dei suoi giorni su questo pianeta e che intanto perde tempo
in divisioni inutili ed addirittura in guerre che portano nella direzione opposta.
Un’umanità che ha un bisogno tremendo di cooperazione e che almeno a livello
globale dovrebbe riuscire a seguire le parole del Segretario al Tesoro americano
Janet Yellen, le quali suonano come un monito per l’intero Occidente: “ci stiamo
dividendo, ma almeno la globalization among friends rimanga”.

Di fronte a questo nuovo ed essenziale bisogno del mondo, ho dei seri dubbi
pensando alle generazioni che conosco, perché la maggior parte di questi ministri,
salvo la prima ministra finlandese, di quello che accadrà nel 50 o 60 non gliene
importa fondamentalmente nulla e, tuttavia, confido in particolare su chi si trova
oggi tra i 20 ed i 30 anni.
Le nuove generazioni ci saranno ed è per loro che va preparato un mondo vivibile
ed il grande detto “nessuno si salverà da solo” mai si applica come in questo caso.
Per tale ragione, mi interessa che assimiliate voi giovani questo bisogno di non
disperdersi, di non frammentarsi al di là di quanto già sciaguratamente siamo divisi
e di dare un forte scossone all’Europa.
Confesso che in questo momento confido di più in Greta che in altre donne e mi
auguro che sappia imporsi quanto basta, affinché ci sia una sterzata verso una
politica comune troppo pigra per essere all’altezza di ciò che è necessario per
affrontare le sfide epocali.

Ultimi post